CLAUDIO MILANO. LA VOCALITÀ ESTESA DEL TEATRO-VOCE

di Piero Chianura

Da sempre interessato alle tecniche vocali estese, Claudio Milano è un cantante di teatro-voce esperto di dinamiche teatrali e appartenenti al mondo della performing art, contesto a cui fa riferimento fin dall’inizio del suo percorso musicale. Nel corso della sua parallela attività di insegnante, Claudio Milano ha sempre spronato i suoi allievi a liberare il proprio io creativo partendo dalla consapevolezza delle infinite potenzialità vocali connesse alla dimensione corporea.
Ciò che colpisce di lui è la sua integrità di artista insieme a quell’inevitabile rigorosità che lo spinge a mettere costantemente in discussione se stesso attraverso lo studio, l’attenzione verso ciò che lo circonda e la pratica artistica vissuta con curiosità, non sempre trovandosi a proprio agio, talvolta con sofferenza, ma sempre con generosità, che si trovi su un palco da solo, con i progetti NichelOdeon, InSonar, I Sincopatici e RaMi, o in un’aula scolastica.

MusicEdu Quando si parla di tecniche vocali estese, il riferimento più noto è Cathy Berberian. E si capisce già che siamo nel campo della performing art.
Claudio Milano Di fatto è lei che ha “aperto il calderone”, da compositrice classica a vera innovatrice del canto moderno. Del resto la mia formazione originaria è quella di uno studente di scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano, da cui è derivata una forma mentis più che un mestiere, perché si trattava di un percorso che comprendeva musica, teatro e scrittura drammaturgica, insieme alle arti visive, ai costumi, agli arredi e alle maschere. Quello della scenografia è stato un mondo meraviglioso che ho avuto modo di esplorare grazie al mio insegnante di allora, Romano Perusini (scenografo per Luigi Nono, da poco scomparso, NdR), che mi ha dato la possibilità di formarmi come musicista nell’ambito del teatro anziché come scenografo puro. In realtà, ho fatto una gavetta a livello musicale estremamente lunga, partita all’età di tre anni quando, dopo essere arrivato terzo a un piccolo concorso vocale in provincia di Brindisi cantando “Heroes” di David Bowie, fui notato da un agente che chiese alla mia famiglia di farmi entrare a far parte di una compagnia che proponeva musiche tra le due guerre mondiali, da Marlene Dietrich ai brani d’operetta fino alla canzone napoletana, esperienza che feci fino all’età di sette anni, quando purtroppo fui vittima di un incidente stradale che mi fermò di fatto fino ai 13 anni. Fu allora che ripresi a cantare studiando anche pianoforte perché avevo capito che il mio interesse principale era quello della composizione applicata anche alla voce. 

MusicEdu In quel momento quali erano i tuoi riferimenti musicali? 
Claudio Milano Allora il mio riferimento assoluto era Antonella Ruggiero, perché quando avevo tre anni la mia sorella più grande, Nicoletta, mi faceva ascoltare regolarmente i Matia Bazar del periodo electro pop, dicendomi proprio che avrei dovuto ascoltare la Ruggiero perché diventasse il mio riferimento. Questo generò in me un curioso approccio alla vocalità, nel senso che allora avevo ovviamente una voce bianca, ma vivendo in un paesino piccolissimo nel sud non avevo la possibilità di svilupparla attraverso degli insegnanti adatti. Chi mi insegnava canto affinché io potessi salire sul palco mi faceva cantare con una voce bianca spontanea espressiva, ma limitata dalle classiche tecniche diaframmatiche, e con modalità di proiezione del suono che preservassero le mie corde vocali. Ma ascoltando Antonella Ruggiero avevo scoperto qualcosa di non così diffuso tra gli insegnanti di canto, ovvero l’emissione di frequenze in falsettone appoggiate a livello diaframmatico. Nicoletta mi fece ascoltare anche artisti dalla vocalità teatrale come Peter Hammill, la cui voce partiva da frequenze estremamente androgine smorzate per raggiungere acuti assolutamente rapaci che avevano la capacità di scavare nell’anima. L’altra mia sorella mi fece ascoltare invece David Bowie, anche lui estremamente drammaturgico, ma che aveva un lamento nella voce.

MusicEdu Quando hai scoperto che esisteva il “falsettone” e hai avuto la consapevolezza di come funzionava il tuo “strumento voce”?
Claudio Milano Sono arrivato a una consapevolezza oggettiva del canto soltanto attraverso gli studi in conservatorio. Sin da bambino, però, giocavo con i risuonatori mettendo in pratica le minime informazioni che mi arrivavano su come ottenerli e usavo il falsettone rinforzato per cercare le frequenze della Ruggiero su brani come “Ti Sento” dei Matia Bazar. Mia madre che, essendo lontana cugina della celebre soprano Maria Caniglia, cantava sempre arie d’opera e operetta, mi invitava ad abbassare costantemente il mento quando cantavo a proiettare il suono in alto. Rispetto alla costrizione cordale determinata dalla mancanza del passaggio di aria, che per un bambino è ovvia, non aveva invece delle competenze specifiche come non l’avevano neanche gli altri pseudo-didatti che mi seguivano in quel periodo. Per il resto ho dovuto arrangiarmi da solo fin dalla prima media, quando avevo già scritto una cinquantina di canzoni che tenevo su un mio libriccino personale, una delle quali (“L’ultima Sigaretta. Fantasmi ad Argun” sulle carceri lager cecene per omosessuali e oppositori politici) aveva una melodia dalla struttura ritmica assolutamente irregolare e libera, che ho tenuto in mente per la bellezza di altri 30 anni prima di riuscire a darle una forma che la rendesse eseguibile dal vivo.

MusicEdu Come si è sviluppato il tuo percorso formativo da autodidatta?
Claudio Milano A 13 anni volevo studiare violoncello perché ero rimasto folgorato dall’ascolto di “Giuseppe Verdi Academy of Music” del pianista Gaetano Liguori. Il violoncello era anche lo strumento che sentivo più vicino alla mia voce, ma nelle vicinanze del mio paese non c’era un insegnante di violoncello. Trovai invece Giusy Turso, un’insegnante di pianoforte che mi ha seguito per sei anni fino alla preparazione dell’esame di compimento inferiore di pianoforte, dandomi da subito la consapevolezza che in ogni caso non avrei potuto raggiungere eccellenze pianistiche, perché la conformazione delle mani e la presenza di un artrosi deformante sin dalla tenerissima età non mi permettevano di fare un percorso di quel tipo. Sentendomi cantare, invece, aveva riconosciuto nella mia voce una volontà comunicativa insieme a una capacità tecnica. Fu così che entrai in un band con uno dei suoi fratelli, i Riverside, per cantare brani di un repertorio variegato dal Classic Rock ai Pink Floyd, ai Deep Purple e altri pezzi degli anni ’70, abbassati per adattarli alla mia voce di basso, e così emerse anche la mia volontà di studiare canto. Dopo varie vicissitudini familiari riuscii a entrare in conservatorio a Taranto, che allora era un liceo musicale pareggiato, mentre frequentavo contemporaneamente il liceo artistico. Avrei voluto studiare in una scuola moderna, mentre il Paisiello di Taranto era al limite del bigotto… così, dopo essere entrato in conflitto con quella scuola e dopo una grave rottura con mio padre, fui costretto ad andarmene via di casa per andare a vivere a Milano. Per solo mezzo punto non riuscii a passare il test di ingresso al Conservatori (anche per le barriere economiche di ingresso imposte ai privatisti) ed entrai invece all’Accademia delle Belle Arti di Brera. Fu Nino Tagliareni, un insegnante di canto dalla mentalità aperta, formatosi come attore nella compagnia teatrale di Gian Maria Volontè, ad accogliermi a patto che migliorassi la mia dizione prima di seguire le sue lezioni. Mi disse “Non potrai mai iniziare a studiare canto con me, se prima non fai un anno di teatro”. Tagliareni usava un metodo di insegnamento molto simile al metodo funzionale di Gisela Rohmert, basato in sostanza sulla consapevolezza che si canta così come si respira e in modo naturale. Così mi ha insegnato a cantare eliminando quelle sovrastrutture che avevo accumulato nel tempo, facendo un lavoro al contrario, togliendo anziché aggiungendo.

MusicEdu È un po’ come si fa quando si apprendono tecniche di canto alternative dopo che si è fatto negli anni un lavoro di “impostazione” tradizionale. Si ritorna all’essenza della vocalità per comprenderla e imparare a gestirla diversamente. 
Claudio Milano Tant’è vero che dopo un anno di teatro Tagliareni mi chiese: “Per quale motivo tu dovresti essere soltanto un cantante lirico? Perché non puoi essere semplicemente un cantante?”. In quel periodo io cercavo la perfezione nell’emissione e ricordo che quando avevo del roco nella voce, lui mi chiedeva di non eliminarlo, ma di integrarlo nel canto perché il muco che si forma fa parte di te in quel momento e crea delle armoniche proprie, come dicono proprio gli studi sul metodo funzionale fatti da Gisela Rohmert che ho appreso più tardi tramite un’altra insegnante, Carola Caruso. In quel periodo, in falsettone rinforzato avevo un’estensione da mezzosoprano spinto, fino al Re5, e quindi potevo cantare da sopranista. In quegli anni era uscito il film su Farinelli che ebbe un’eco importante e Nino mi disse che, qualora io l’avessi voluto, mi avrebbe fatto esibire cantando delle arie di quel periodo, ma io ero molto più affascinato da cantanti come Jeff Buckley piuttosto che da vocalità come quella di Angelo Manzotti, una persona magnifica con la quale ho lavorato nel 2013 e che rimane tra i sopranisti più capaci per la bellezza del timbro e per ciò che ha portato nell’ambito del canto esteso barocco nell’ottica dei cosiddetti “falsettisti” o dei contro tenori. Angelo, che in realtà nasce come autodidatta, aveva capito che gli bastava fermare le corde vocali a livello di vibrazione in un determinato punto, attraverso l’impiego dello stop closure, per andare a farle vibrare nella porzione superiore e ottenere un suono da soprano con un timbro molto più ricco rispetto a chi in quel periodo aveva una vocalità molto più esile e un timbro molto più adamantino, come Aris Christofellis, per esempio, che era più tecnico di Manzotti. Il timbro estremamente credibile di Angelo è quello che viene insegnato oggi nei conservatori a chi studia da contro tenore, oggi chiamato “male soprano”, una vocalità che mi affascinava molto, anche se amavo lo scuro verso cui mi sono poi indirizzato con il passare degli anni.

MusicEdu È interessante la tua assoluta libertà di spaziare da un ambito all’altro e in chiave multidisciplinare a partire dal teatro, il che da un lato rende difficile collocarti come artista e come insegnante, ma dall’altro ti permette di affrontare qualunque progetto con una certa flessibilità.
Claudio Milano Gli studi che ho fatto e che tante altre persone stanno portando avanti nel frattempo, comprese le centinaia di allievi con cui ho avuto a che fare negli anni, hanno sempre inteso la voce come espressione del sé, ma anche come rivelazione. È il teatro a indurre questo approccio, perché prima di metterti le maschere con assoluta consapevolezza, devi riuscire a togliere quelle che hai addosso. Il teatro è fatto di grandissima ricerca personale, è un percorso molto duro che, dopo l’esperienza con Tagliareni, ho avuto modo di riprendere quando, dopo essermi laureato con una tesi sull’opera d’arte totale a Brera nel 2000, sono entrato nel 2002 nella compagnia teatrale di Marc Vincent Kalinka, con il quale ho avuto la possibilità di partecipare alla performance inaugurale italiana alla prima biennale d’arte contemporanea a Mosca, a un’installazione alla Biennale di Venezia del 2011 e a un festival di teatro d’avanguardia nella Repubblica Ceca nel 2003. È con lui che ho scoperto ciò che mi mancava e cioè la voglia di arrivare a un pubblico, probabilmente per quel senso di inadeguatezza rispetto al proprio tempo, tipico della generazione X di cui faccio parte, la cui mancanza di prospettive future arriva dalla consapevolezza di essere tutti facilmente mercificabili. A un certo punto avevo capito che per sostenermi dovevo fare tutto ciò che potesse permettermi di sbarcare il lunario. Mi ero reso conto che stando nella torre dorata del musicista intellettuale stavo rinunciando a una parte di umanità di cui avevo paura così come avevo paura in realtà dei miei limiti e delle mie “disabilità”. Non a caso, in quel periodo ho anche deciso di diplomarmi in musicoterapia.

MusicEdu Quando hai deciso di cominciare a insegnare?
Claudio Milano Potrei dire che Claudio Milano come insegnante nasce con questa intervista! Lo dico sinceramente per una semplice ragione e cioè per il fatto che ho lavorato all’interno di tante strutture, per non parlare della quantità enorme di posti in cui ho tenuto dei laboratori e dei seminari in giro per l’Italia, dove ho sempre trovato dall’altra parte persone che cercavano in qualche modo “quello bravo”. Di me non si è mai inteso un “metodo”, che è quello che io ti sto raccontando in questa intervista. Anzi, mi è stato chiesto al contrario di non raccontarlo e di non fare minimamente riferimento al mio percorso, perché si tratta di un qualcosa che mette troppo in discussione l’allievo. In realtà sono stato presentato sempre e comunque come il super cantante, quello bravo che sa cantare su una gamma estremamente ampia, come fossi il Nicola Sedda di turno, che ha inciso la frequenza più acuta a livello mondiale emessa da una voce maschile, ma quella frequenza, in realtà, potrebbe emetterla chiunque. Se come esseri umani, noi avessimo la possibilità di sentire gli ultrasuoni o gli infrasuoni, capiremmo che anche la nostra voce è in grado di emetterli. E questo ci porta a comprendere che ognuno può essere “i tanti noi stessi”. L’universalità della voce, poi, non si ha solo nel canto delle forme classiche che vengono insegnate nei corsi tradizionali, ma si ha anche in manifestazioni come l’urlo primordiale della terra o quello emesso dalle donne subsahariane durante i funerali e tanto altro. Quanto è sciocco intendere l’occidente come l’unico punto di riferimento per la fonazione? È questo che io cerco di riportare a miei allievi ed è un qualcosa che va molto oltre al lavoro di Demetrio Stratos, considerato il punto più avanzato della ricerca vocale in Italia. Ora, per rispondere alla tua domanda, dopo aver studiato con Tagliareni, canto difonico tibetano vietnamita con Tran Quang Hai, circle songs con Albert Hera, i risuonatori con Anna Garaffa, il metodo funzionale con Carola Caruso, fino a Michele Budai che mi ha introdotto allo Yoga applicato al canto, è stata proprio Carola Caruso a dirmi: “Stop! Basta studiare. Ora devi creare il Tuo metodo”. Così decisi di iniziare a insegnare passando anche per l’Accademia Musicale Internazionale di Monza dove ho lavorato per anni e dove ho potuto instaurare anche delle amicizie e dei rapporti collaborativi molto importanti con Andrea Quattrini, per esempio, ma anche con Alex Tangoni e con il maestro Villa. Lì sono passati tantissimi nomi che poi sono diventati i professionisti di mezza età che insegnano oggi nell’area milanese e che io considero, come me, un po’ “i Re Carlo della musica”, per i quali è impossibile rimuovere dal trono la Regina Elisabetta così come nella musica è impossibile rimuovere miti come Paul McCartney, Peter Gabriel e tutti i grandi che sono le fondamenta del sistema musicale di oggi.

Foto: Mario Coppola

MusicEdu Invece c’è da augurarsi che le nuove generazioni riescano a rilanciare qualcosa di migliore e che sentano propria.
Claudio Milano Secondo me, attualmente stiamo vivendo il crollo di una cultura: è assurdo pensare che il denaro, un pezzetto di carta, possa rappresentare da solo una poetica sulla quale va a fondarsi una cultura, riducendo a mercificazione l’essere umano tutto, non soltanto il suo lavoro, ma il suo impegno, la sua poesia e la sua bellezza, che è poi quella tradotta nelle arti di cui oggi abbiamo la possibilità di godere. Alla società manca una struttura spirituale che possa permettere all’umanità di continuare a vivere nella direzione che ha intrapreso. 

MusicEdu L‘attuale cultura di massa non fa riferimento ad alti valori condivisi, ma ad aspirazioni individuali che puntano al denaro e al successo. Con queste premesse, come è possibile muoversi in ambito artistico con qualità e al tempo stesso raggiungere un pubblico significativo?
Claudio Milano Fin da subito, nella mia produzione discografica ho voluto pubblicare dei lavori che fossero in qualche modo enciclopedici, omnicomprensivi a livello culturale e che abbracciassero dei riferimenti culturali quanto più ampi possibili. Oggi, quanto più vado in profondità, tanto più vado a crearmi un alveo talmente piccolo appartenente a me stesso e a poche altre persone, da non riuscire a renderlo accessibile a un pubblico più ampio. L’opera di T.S. Eliot La Terra Desolata è diventata per me un riferimento concettuale e culturale tout court per la mia scrittura musicale. Da essa è iniziata la comprensione di un possibile sviluppo della mia musica in maniera soggettiva, che riuscisse a esprimere “Claudio Milano” e non solo i suoi riferimenti. Da questa lettura è nata l’idea delle tante voci di sé, quindi la voce che potesse esprimere quanti più alvei possibili. Per me la voce ha un valore strettamente figurativo ed è come se io andassi a trovarla in parti del mio corpo a livello di risuonatori. Non c’è soltanto il risuonatore di testa o quello di gola, perché io so di poter cantare di pancia, cioè sento la vibrazione di pancia, così come so di poter cantare a livello inguinale perché sento la possibilità di poter spingere l’aria da quella zona. È come il percorso fatto da Jerzy Grotowski in ambito teatrale attraverso i risuonatori a livello osseo e quello che Anna Garaffa mi ha sempre insegnato e cioè che, attraverso il passaggio dell’aria e attraverso la vibrazione, io porto il suono dove voglio a livello corporeo. Così, se io voglio curare il mio corpo in una determinata area, lo faccio cantare in quell’area dove ha bisogno di esprimersi per guarire. È un principio valido nella musicoterapia: nel momento in cui io percepisco un blocco di un certo tipo nel ricevente la mia azione terapeutica, agisco su una determinata area con le vibrazioni del suono e lo faccio con la voce, non con gli strumenti. 

MusicEdu Nella maggior parte degli ambiti in cui viene sfruttata la componente vibrazionale del suono per portare benessere alle persone, vengono usati strumenti di generazione sonora esterni a noi.
Claudio Milano A tutt’oggi quello che viene insegnato all’interno dei corsi di formazione in musicoterapia e l’impiego dello strumentario Orff oppure l’impiego del metodo Tomatis. Però io posso garantire sul fatto che il lavoro sui parametri primi del suono, quindi altezza, durata, intensità in particolar modo, ma anche organizzazione spaziale, in molti casi ha una grande valenza perché, per esempio, le persone autistiche sono estremamente incuriosite dalla percezione del loro suono attraverso un microfono ed è un qualcosa che non viene ancora applicata. Quando ho lavorato con un bambino autistico che non aveva mai parlato in tutta la sua vita, nemmeno come lallazione, nel momento in cui si è ritrovato davanti a un microfono me l’ha letteralmente strappato di mano per emettere dei suoni coordinati. Si trattava in quel caso di “sì”, “no” e poi, pian piano, i “si” e i “no” sono diventati dei micro costituenti delle parole, cioè sillabe, proprio grazie all’uso del microfono amplificato dalle casse, che il bambino percepiva come un suono non suo. In genere nessuno usa il microfono nelle sessioni di musicoterapia, mentre nel mio setting lo utilizzo regolarmente, soprattutto con chi ha uno status specifico come quello autistico ad alto funzionamento, che ha una percezione nel tempo e dello spazio completamente sua. Inoltre, questo bambino reagiva in modo impressionante agli armonici e quindi mi permetteva di andare a indagare le possibilità timbriche. Chi è autistico in buona misura produce dei suoni ultra metallici, quindi per creare un rapport con lui bisognava produrre dei suoni che fossero altrettanto metallici imitandoli con la mia voce. Nell’ambito dell’autismo, infine, ci sono molti bambini che emettono dei suoni di sfiato in direzione inversa e gli insegnanti che vogliono entrare in relazione con loro per creare un canale comunicativo attraverso la musicoterapia possono portare pian piano a sé la loro fiducia utilizzando gli stessi parametri sempre attraverso l’imitazione, purché questo percorso venga fatto con consapevolezza e sincerità empatica. Se una persona lo fa con l’idea che deve fare teatro, allora il tutto diventa beffa.

Foto: Frank Soprani

MusicEdu Arriviamo così all’essenza di ciò che insegni ai tuoi allievi, ovvero la consapevolezza del loro corpo risuonante.
Claudio Milano Esatto. La voce e il suo legame con il corpo, con lo spazio e con il tempo. Sono cose completamente differenti tra di loro che vanno assolutamente individuate. È il teatro che permette lo sviluppo della voce in relazione al corpo, ma anche allo spazio, cosa che il canto su uno spazio live tipicamente pop non concepisce neanche vagamente. La dimensione della performing art permette di intendere la gestualità legata al suono, ma non nel senso di vezzo o di costume, come poteva essere inteso da personaggi come Patty Pravo o Mina, ma come occupazione dello spazio che fa parte dell’individuo. Di tutti i posti che abbiamo attraversato siamo le persone che abbiamo conosciuto e con cui siamo entrati in contatto, insieme agli spazi che abbiamo occupato e all’animalità che esprimiamo e che in qualche modo ci appartiene. È come se il nostro corpo fosse di fatto una mappa geografica. Noi siamo la strada che andiamo a macinare, ma dobbiamo avere anche la consapevolezza del tempo che dobbiamo impiegare a percorrerla e della sua qualità. Così, quando io sono sul palco, intendo la drammaturgia come un essere che occupa lo spazio per portare un messaggio immedesimandosi completamente all’interno di quello che sta vivendo. L’atto performativo non è l’atto di chi va a proporre un quadro già bello e definito, ma di un individuo che va a proporre qualcosa senza ben sapere quello che accadrà, ponendosi dunque completamente nudo davanti a chi c’è dall’altra parte. 

MusicEdu Quali strumenti didattici e quali modalità di insegnamento adotti in pratica?
Claudio Milano Il mio sistema di insegnamento parte dalla modalità opposta a quella tradizionale che inizia dal canonico avvicinamento a una respirazione corretta come se gli individui non avessero mai respirato e non respirino tutti i giorni… mentre, al limite, avrebbe senso insegnare a essere consapevoli di come respiriamo. Più interessante è invece per me far comprendere la respirazione inversa, una di quelle cose che mette profondamente in discussione l’allievo, se applicata al canto, perché permette di ottenere dei suoni che altrimenti non possono essere ottenuti in alcun modo, suoni che in conservatorio non vengono assolutamente insegnati perché considerati fisiologicamente non corretti. L’idea di una musica cristallizzata nel suo ideale barocco di bellezza è andata ormai da tantissimo tempo ed è giusto iniziare a vivere l’esperienzialità sin dai primi anni di studio. Tutte le avanguardie del Novecento ci volevano insegnare questo a partire dal percorso iniziale di Cathy Berberian la cui volontà di introdurre l’onomatopea all’interno della musica seguiva l’idea di un’espansione culturale che, ricordiamolo, era anche espansione di coscienza. Da questo punto di vista, oggi abbiamo completamente rimosso l’idea del mettersi in discussione. Chi viene a lezione da me, invece, si deve mettere in discussione e ripensare lo studio della voce in una dimensione più ampia che comporta non soltanto l’esecuzione, ma anche e soprattutto l’improvvisazione come viene intesa all’interno della musica radicale del Novecento e che è andata a svilupparsi dall’armolodia di Ornette Coleman con l’idea dei cluster, che io stesso ho seguito quando studiavo con Carola Caruso: lei suonava dei cluster al pianoforte, su cui dovevo progressivamente andare a sviluppare linee melodiche assieme a lei, e che fossero quanto più alleggerite possibili e quanto meno mentali possibili. Penso anche al canto di percezione di Meredith Monk, che è il risultato di una ricerca interiore estrema dove ogni cellula si muove assieme al corpo e produce di conseguenza un suono di un determinato tipo. È difficilissimo fare intendere una cosa del genere a un cantante lirico, ma è il percorso che, per esempio, viene portato avanti oggi da Laura Catrani con il suo gyrokinesis applicato alla voce. È un qualcosa che permette di ottenere una varietà estrema di suoni indipendentemente dalla postura e quindi indipendentemente dal modo in cui il corpo occupa lo spazio, anche a diaframma compresso. Ed è proprio dal teatro e dalla conoscenza della voce in teatro che sono nate le migliori intuizioni che andiamo a considerare oggi, verità che la letteratura legata alla voce rifiuta di riconoscere. Penso a personaggi come il tenore Russo Fedor Shalyapin con i suoi lavori sulla fonazione dei gondolieri Russi o all’attore drammaturgo Antonin Artaud, le cui modalità drammaturgiche si sono evolute anche in Italia a partire da Carmelo Bene. Chi ha lavorato sui suoni prevocalici è stato invece Danio Manfredini, la cui corporeità rispetto al rapporto della sua essenza è un qualcosa di straziante e che ha portato agli estremi il linguaggio di Pierpaolo Pasolini all’interno di “Supplica a mia madre”. Ma anche l’avanspettacolo di personaggi come Macario, Lelio Luttazzi o Ciccio e Ingrassia, fatto di fonemi, suoni e fischi, non può essere archiviato. Penso invece a tutti quelli che producono audiolibri oggi e che hanno una conoscenza del proprio apparato fonatorio troppo limitata riguardo l’emissione su più registri. L’idea della voce che stiamo tramandando ai più giovani è semplicemente un mezzo fra tanti e anzi viene proprio negata attraverso l’impiego dell’auto-tune e altri elementi che riducono la vocalità a uno stereotipo completamente appiattito, in cui le voci delle donne e quelle degli uomini sono quasi identiche. Perciò io continuo a parlare dei luoghi del sé e della loro indagine attraverso la voce e la corporeità, che porta a vocalità complesse e in cui spiccano personalità differenti e inaspettate.

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Performance: Beshem Ashem + Fu Luce e Fu Paesaggio

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