MUSICA PER MODO DI DIRE… IL LINGUAGGIO MUSICALE QUOTIDIANO E I SUOI SIGNIFICATI

di Alberto Odone

Alamiré Alamiré, alla fiera di Mastr’André! Conoscete questo ritornello? Anni fa, insegnante di musica in una scuola primaria, ho avuto modo di cantarlo, insegnarlo, accompagnarlo mille volte. È una melodia napoletana costruita come gioco di memoria (una forma resa celebre da Angelo Branduardi negli anni ‘70 con un’altra fiera, quella dell’est) per cui ogni ripetizione del ritornello aggiunge una frase, un suono, un gesto che rappresentano un diverso strumento: il tamburello, il violino, “lu piffariello” ecc. Resta il mistero di questo “Alamiré” iniziale: alcune versioni lo sostituiscono, altre ne fanno un’espressione vagamente magica, tipo “Abracadabra”…

Ma da dove viene questo “Alamiré”? Scomponiamolo per capire meglio. “A” è una nota, o meglio un suono, che noi mediterranei chiamiamo “La”, punto sonoro di riferimento: “dare il La” significa rendere possibile un avvio. Ma che cosa ci fanno La, Mi e Re accostati al nostro A di riferimento? A è un suono ben determinato, mentre Do, Re, Mi ecc. molto tempo fa indicavano elasticamente i gradini di diverse possibili scale. Dunque, A può essere il sesto gradino della scala che parte da C (il nostro Do) e quindi chiamarsi La (fate il conto!). Ma se parto da F (il Fa) lo raggiungo in tre passi, e allora lo chiamo Mi. Nella scala che parte da G (Sol) è in seconda posizione, quindi diventa Re: A può essere La, Mi e Re, Alamiré. Un bel labirinto, vero? Ed è per questo che sono nate filastrocche alla Mastr’André come aiuto mnemonico ai piccoli musicisti che vi si cimentavano. Se si gioca, anche un labirinto può essere divertente e fare in modo che alla fine nessuno si possa dire “stonato come una campana”.
Ma: povera campana, perché dovrebbe essere necessariamente stonata? Il suo torto sta nel ripetere sempre ostinatamente la stessa nota (ma allora dovremmo rimproverare anche le più nobili e celebrate canne d’organo!). 

Alamiré ci dice che i rapporti tra i suoni sono mutevoli e che la musica e il suo fascino derivano proprio da queste relazioni. Un suono isolato e sempre uguale, paradossalmente, è proprio quello che rischia di apparire stonato.
Macché isolamento, la musica non è forse “un linguaggio universale”? Anche questa idea è molto comune, la si sente pronunciare con grande convinzione nelle introduzioni ai concerti e in quelle occasioni in cui è giusto sottolineare che fare musica può effettivamente unire le persone, anche a distanza. Ma sulla sua universalità siamo proprio sicuri? Chiediamo all’esperto. Ecco cosa scrive Curt Sachs in Le sorgenti della musica, un classico dell’etnomusicologia: “La nostra musica d’arte […] non raggiunge che un settore sociale limitato e quasi insignificante dell’umanità, e anche con questo settore così ristretto il suo impatto non è affatto uniforme”.
Se l’Inno alla gioia può fungere da ombrello musicale unificatore delle nazioni europee, lo stesso Beethoven sortisce un effetto molto diverso appena messo l’orecchio oltre confine. Sempre Sachs ci racconta che un collega “aveva portato un eccellente musicista popolare albanese a sentire la Nona sinfonia di Beethoven. Quando gli fu chiesto se gli fosse piaciuta, l’albanese esitò un poco e alla fine, dopo un paio di bicchieri, dette questa stupefacente risposta: ‘Bello, ma troppo semplice’. […] L’albanese non era né arrogante né incompetente; aveva semplicemente un criterio diverso di giudizio”. Chi abbia qualche conoscenza dei ritmi musicali tipici dei Balcani può forse comprendere come l’unificazione metrica della musica occidentale lasci a bocca asciutta chi, per qualche chilometro o per molte miglia, abiti a est del mare Adriatico.

Come può essere successo che questa idea dell’universalità della nostra musica sia diventata un luogo comune? Ancora Sachs, senza mezzi termini: noi occidentali “siamo convinti di trovarci in cima al mondo, compresa la nostra musica, della quale, a ragione, andiamo tanto fieri”. Non si tratta di disconoscere la grandezza di un’arte ma di essere consapevoli della sua parzialità. Certo, la globalizzazione ha probabilmente ridotto questa sensazione, ridistribuendola in parte su un asse temporale, separando meno i popoli e più le generazioni. C’è però una ragione più banale ma ugualmente significativa nella convinzione che la musica sia universale. Aprendo una pagina di Goethe in lingua originale, probabilmente la maggior parte di noi fatica a comprenderne il significato. Se invece, da musicista, apro uno spartito beethoveniano mi è immediatamente possibile farne risuonare la musica. 

L’ingenuità di questa constatazione ci fa pensare quanto spesso si intenda la musica come notazione, la si confonda con la sua scrittura, spesso con conseguenze concrete: “ho lasciato a casa la musica”. Se per me la musica è scrittura, senza la carta non suono. E che dire della parola “metodo”, passata a indicare non le modalità interrelazionali di condivisione del linguaggio musicale, ma il volume cartaceo che devo portarmi a lezione? E forse un po’ di fissità deriva proprio da qui, da un’idea di musica fatta di punti anziché di percorsi, di occhi fissi sul foglio invece che di sguardi di intesa. 
Funzionava in altro modo quando la musica veniva trasmessa soprattutto oralmente, come in buona parte del nostro Medioevo. Vivendo immerso nelle melodie del suo monastero, il cantore non aveva bisogno della scrittura per capire quale delle otto diverse scale in uso all’epoca fosse quella con la quale rispondere al coro: la sua memoria e il suo orecchio gli permettevano cioè di “capire l’antifona” e di rispondervi “a tono”. Ma è ciò che succede correntemente nel jazz e nelle musiche di tutte le epoche quando la tradizione orale gioca il ruolo che le spetta. Il linguaggio quotidiano ci riporta una molteplicità di retaggi. Elasticità, relazione tra elementi musicali e tra musicisti, confronto schietto tra culture sono forse le migliori caratteristiche di quella musica che si porta sempre con sé, perché è espressione del nostro essere.

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