MADE IN ITALY E MADE IN CHINA. DIMINUISCE IL DIVARIO DI QUALITÀ

di Piero Chianura

Anche quest’anno ho avuto il piacere di partecipare a Music China di Shanghai, la fiera degli strumenti musicali organizzata a ottobre di ogni anno dall’ente fieristico tedesco Messe Frankfurt sede di Hong Kong, in collaborazione con Shanghai Intex Exhibition e l’associazione dei costruttori cinesi di strumenti musicali (CMIA). Seguo questa manifestazione, nata nel 2002, fin dalle sue prime edizioni, quando i grandi marchi occidentali di strumenti musicali diedero il via al processo di delocalizzazione della produzione in Cina con l’obiettivo di ridurre i costi della manodopera e al tempo stesso approfittare dell’apertura di questo grande Paese ai prodotti occidentali. 

Dopo la recente crisi pandemica, che ha messo seriamente in discussione la globalizzazione dei mercati e della produzione, qualcuno ha cominciato a chiedermi perché trovo ancora interessante partecipare a questa fiera. La mia risposta sintetica a questa domanda è che la produzione cinese di strumenti musicali ha influenzato e continua a influenzare il nostro mercato. Monitorarlo da vicino è un dovere ancora di più oggi che i media occidentali hanno indotto un affievolimento dell’interesse nei confronti della Cina su tutti i fronti. 

Anche il contesto della formazione musicale cinese è molto interessante per noi italiani, sia perché funziona il modello da loro applicato per stimolare la pratica musicale, sia per le opportunità di collaborazione che le scuole cinesi offrono ai nostri formatori, portatori di una cultura musicale da loro molto apprezzata. Inoltre dalla ripresa post-pandemica a oggi il governo ha costruito un numero significativo di college e campus internazionali con corsi tenuti in lingua inglese con possibilità di studio intensivo del cinese, alcuni dei quali dedicati alle arti performative (per esempio, il College of Chinese & ASEAN Arts di Chengdu). All’interno di questi college sono già presenti un numero elevato di studenti e insegnanti provenienti da tutto il mondo, a dispetto delle distanze che, almeno in apparenza, la classe politica e i media occidentali stanno prendendo dalla Cina e che sembrano destinate a isolare invece chi decide di restare in Europa.

Se ci limitiamo a osservare il settore degli strumenti musicali e il comportamento delle nostre aziende attraverso le opportunità a loro offerte da Music China, possiamo sintetizzare un’evoluzione di questo tipo: I nostri produttori hanno sfruttato il brand made in Italy per raggiungere la fascia alta del mercato cinese, quello della nuova classe più agiata. Alcuni di questi produttori hanno istruito le neonate fabbriche OEM, in grado di costruire strumenti dal brand italiano a basso costo di manodopera. I nostri distributori, invece, hanno visitato Music China per anni alla ricerca di prodotti made in China da rivendere in Italia, alimentando la fascia entry level del mercato. Si trattava di prodotti inizialmente di qualità mediocre, ma che permettevano a molte più persone di entrare nel mondo della musica in un momento storico di forte crisi economica per il nostro Paese.

Ciò che è accaduto dopo è sotto i nostri occhi. Gli artigiani, i liutai e gli operai delle fabbriche cinesi sono stati buoni allievi e hanno imparato in fretta. Tanto che le grandi aziende di tutto il mondo e in tutti i settori si servono di loro per costruire anche prodotti di fascia alta, non solo tecnologici, e molti marchi leader oggi sono cinesi. Dopo aver appreso dalle botteghe della liuteria cremonese, anche i liutai cinesi oggi costruisco strumenti ad arco la cui unica differenza spesso sta proprio nell’assenza del marchio made in Italy. Anche i musicisti cinesi che hanno studiato nelle nostre accademie sono diventati degli ottimi interpreti della nostra cultura musicale e alcuni di oggi insegnano nel loro Paese la nostra musica e i nostri strumenti.
È anche per questo che oggi occorre ripensare al significato di  made in China e made in Italy e ai pregiudizi di valore che si portano dietro, soprattutto alla luce del fatto che molti dei prodotti che crediamo frutto della nostra produzione sono in realtà costruiti in fabbriche cinesi, visto che la dicitura made in Italy oggi può essere usata su un prodotto anche solo in minima parte realizzato o magari soltanto progettato in Italia.
Molto viene delocalizzato eppure la qualità molte volte non ne risente e il consumatore nemmeno se ne accorge.

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