CHI INSEGNERÀ AGLI INSEGNANTI? VICENDE DELLA DIDATTICA STRUMENTALE IN ITALIA
di Alberto Odone
Una delle novità positive rese possibili dalla ben più che ventennale riforma dei conservatori italiani è l’introduzione, nei percorsi dedicati alla didattica musicale, di trienni e bienni di didattica specificamente strumentale. La cosa è tanto più notevole se si considera che una delle occasioni perse da quella riforma è proprio la specificità di destinazione degli studi.
A quasi un secolo dai programmi degli anni Trenta del secolo scorso, si entra ancora in conservatorio per studiare genericamente flauto, violino ecc. senza che si specifichi la destinazione delle competenze che si acquisiranno.
Sono nati, è vero, percorsi che rappresentano un’eccezione a questa tendenza: Maestro accompagnatore, Musicoterapia, Musica per immagini ecc. ma il nocciolo duro degli studi strumentali, come osservavamo nel n.17 di MusicEdu, resta caratterizzato (a onta di tutti i richiami all’occupabilità) da un indirizzo amatoriale, cioè non realisticamente indirizzato a una spendibilità lavorativa. Parallelamente, ma non senza connessione con quanto appena rilevato, si osserva una sorta di impermeabilità delle scuole: nei decenni, il conservatorio ha annesso vari percorsi formativi, a testimonianza di tentativi di apertura alla concreta realtà musicale: l’insegnamento degli strumenti antichi, la didattica, la musica elettronica, il Jazz, ultimamente i generi Pop e Rock. Tuttavia, per vari motivi anche strutturali (l’assenza di momenti istituzionali di confronto didattico, per esempio) questi settori rimangono come altrettante appendici isolate rispetto al corpo tradizionale degli insegnamenti strumentali. Viceversa, il dialogo tra settori e tipologie di competenza e l’uscita da una prospettiva angustamente tecnicista giocherebbero a favore di quella elasticità e molteplicità di applicazione che potrebbe fare la differenza anche sul piano occupazionale.
È interessante, e significativo, osservare come il problema dell’ampliamento degli orizzonti formativi sia stato in qualche modo già presente alle coscienze di personaggi appartenenti alla storia musicale del passato. Un esempio tra altri: il compositore Giacomo Orefice (1865-1922), docente del conservatorio milanese, latore di una proposta di riforma che ci può apparire ingenua nella sua radicalità ma che è segno di una condizione problematica chiaramente sentita nel corso di lunghi decenni. Orefice propose uno schema di “ordinamento degli studi di composizione attorno al quale sviluppare la ‘trasformazione radicale di tutto il Conservatorio’. Le varie scuole di insegnamento strumentale e vocale dovevano essere ‘scompaginate e trasformate radicalmente’ per superare la loro condizione di ‘cellule’ a favore di ‘un’organizzazione musicale completa: La musica, nella sua più ampia significazione ed essenza, dovrebbe essere lo studio principale del Conservatorio. Tutti gli altri – canto, violino, pianoforte, la composizione stessa – dovrebbero divenire materie complementari” (Cit. in: Orazio Maione, I Conservatori durante il Fascismo, EDT, p. 23).
L’introduzione dei percorsi accademici focalizzati sull’insegnamento strumentale è quindi da salutare con favore, come un passo in avanti nella direzione di un fruttuoso e promettente intreccio tra settori, parziale correttivo alle mancanze appena segnalate.
Molto parziale però: di fatto gli iscritti ai percorsi didattici sono una sparuta minoranza rispetto agli studenti che hanno scelto i tradizionali corsi di strumento, e ciò non sembra porre alcun problema, è fenomeno considerato completamente fisiologico.
Ma c’è di più. Ultimamente uno studente di didattica strumentale mi riferisce, non senza apprensione, di aver scoperto che il corso da lui frequentato non dà accesso all’insegnamento strumentale nelle medie o nei licei musicali. Come non cogliere in ciò un’eclatante contraddizione? In ambito accademico, tutti coloro che hanno studiato un certo strumento possono insegnarlo, tranne coloro che hanno studiato anche come insegnarlo. Evidentemente le abilità tecniche acquisite nel corso di didattica strumentale non vengono ritenute sufficienti ai fini dell’insegnamento strumentale. Ma non pone alcun problema, viceversa, il fatto che coloro ai quali è riservata la possibilità di tale insegnamento, nel corso di tutto un Triennio Accademico affrontino la materia “Metodologia dell’insegnamento strumentale” per una manciata di ore in tutto. Per essere insegnanti la tecnica strumentale ci vuole, di quella didattica possiamo invece fare tranquillamente a meno.
Dunque, nonostante le riforme e i loro apporti più o meno positivi, la formazione musicale resiste, si oppone alla sua evoluzione, sia questa dettata da considerazioni di ordine metodologico o empiricamente legate a dati di realtà. Come osservavamo nello scorso articolo già citato, i segni della crisi non mancano, ma la terapia sembra ripercorrere i sentieri di sempre, solo con più accanimento. Non sarebbe più sensato andare nella direzione di una riconversione pedagogica?
Di fronte al dilagare della riproduzione digitale della musica (e perché mai dovremmo rinunciare a questa formidabile comodità?) l’esecuzione musicale conserva tutta la sua meravigliosa valenza umanistica, ma non certo quella professionale. Perché non provare a volgere questo svantaggio in opportunità dando un indirizzo alle fatiche didattiche di docenti e studenti che risulti finalmente sostenibile, adeguato nel tempo alle trasformazioni tecniche e sociali anziché insistere su una ricetta obsoleta?
Quante prospettive occupazionali possono nascere dal lavoro sulle energie rinnovabili o dalla cura del territorio, rispetto all’insistenza sulla produzione di automobili? Non diversamente, potremmo puntare alla riconversione del modello ottocentesco del fare musica, sostituendo al mito dell’automatismo atletico esecutivo la prospettiva dell’acquisizione di un’ampia gamma di abilità musicali, con l’esplicito obiettivo di contribuire al miglioramento della qualità della vita, propria e degli altri cittadini.