SOLFEGGIO. BASTA UN POCO DI ZUCCHERO?

di Alberto Odone

Parliamo ancora di solfeggio. È un tema di basso profilo, certamente non degno di una prima o di una terza pagina. Le rare volte che mi è capitato di parlarne sui social ho notato però commenti relativamente numerosi e soprattutto sanguigni, pronti alla battaglia, al coro da stadio. E in effetti su questo argomento molto spesso le prese di posizione sono da tifoseria: si è pro o contro, indipendentemente da fatti, filosofie, dati sperimentali o report storici.

Nello spirito di questa rubrica, cercherò di scovare pensieri che sonnecchiano in una acquiescenza comune, più rassegnata che convinta, tendenzialmente acritica. Principale oggetto del contendere, accanto a un insieme di altre pratiche, è la lettura ritmica parlata delle note. Consideriamo alcuni pensieri al riguardo.

Il problema del solfeggio è che si tratta di una pratica noiosa, quindi demotivante

Chi potrebbe contestare questa affermazione? Essa è il punto di partenza per mille tentativi di rendere questa pratica più gradita attraverso colori, giochi, fumetti e ogni sorta di addolcimenti della pillola. Il tema della motivazione, non c’è dubbio, merita grande attenzione. Tuttavia il pensiero che fa capolino dietro i tentativi citati è quello del “male necessario”. Non si discute la pratica, la si accetta, cercando semmai di ridurne gli effetti negativi. Ma è veramente solo questo il punto?

Il solfeggio, bello o brutto che sia, fa parte della nostra tradizione 

Di quale tradizione parliamo? I due riferimenti storici di maggiore portata ci rimandano a pratiche molto diverse da ciò che possiamo avere in mente oggi. La solmisazione medievale, dalla quale il solfeggio odierno trae le sillabe, e la sua evoluzione successiva hanno come scenario la pratica vocale e prevedono una applicazione delle sillabe volta a stabilire la posizione e il ruolo dei suoni all’interno del sistema utilizzato (l’esacordo prima, la scala tonale poi), il loro effetto psicologico musicale necessario a richiamarli alla mente nella lettura.
Il secondo riferimento è la Napoli del Settecento. In questo quadro la parola solfeggio si riferisce all’esecuzione di melodie provviste di accompagnamento (riassunto in una linea di basso) alle quali, come in precedenza, si attribuiscono i nomi delle note con significato relativo. Uno dei principali obiettivi pedagogici dei solfeggi napoletani sembra essere stata la familiarizzazione dello studente con disegni melodici interessanti e di buona qualità musicale. L’attribuzione delle sillabe non avviene nota per nota: secondo i recenti studi di Nicholas Baragwanath (The Solfeggio Tradition, 2020) a essere sillabato è solamente l’inizio di ciascun “tratto di vocalizzazione”, che dopo l’attribuzione della prima sillaba viene cantato con un’unica vocale. Le note scritte, inoltre, sono destinate a essere arricchite da diminuzioni e variazioni improvvisate. Si eseguono più suoni rispetto alle note scritte, e le note sono in maggior numero rispetto alle sillabe: tutto considerato, una notevole distanza dalla pratica alla quale siamo abituati a fare riferimento. Questo è il “solfeggio all’italiana”. E l’altro solfeggio, quello che pronuncia tutte le singole note, anche senza intonazione, da dove proviene?

Il solfeggio non è adatto all’amatorialità, fa parte della formazione professionale

All’indomani della Rivoluzione, la Francia cerca di svecchiare anche l’insegnamento musicale. Nasce il Conservatorio di Parigi, che si chiama “Conservatorio” proprio perché vuole porsi come erede della tradizione napoletana: da qui la grande importanza attribuita ai “Solféges d’Italie” (AA. VV. Parigi 1768). Si avvia nel contempo un processo di sistemazione della didattica musicale: i materiali napoletani sono trasformati in “metodi”, manuali con un percorso formativo sistematico. Parallelamente, la nuova Francia vuole sveltire la formazione musicale. Puntare alla formazione del professionista educato al pieno possesso del linguaggio musicale, in grado di eseguire allo strumento ma anche di cantare, improvvisare e comporre richiede troppo tempo. Si può accelerare la formazione orientandola verso percorsi più simili a quelli dell’amatorialità: niente più intonazione cantata, niente più sillabe che variano a seconda del contesto tonale: fissiamole ai tasti in maniera chiara e univoca, e l’apprendimento sarà più rapido. Bastano note e ritmi: a fornire i suoni ci pensa lo strumento. Il solfeggio nasce quindi dalla rinuncia a obiettivi pienamente professionali per accontentarsi di un veloce percorso di addestramento dedicato a poche abilità (sostanzialmente la traduzione strumentale di sillabe e note) che tralasciano l’ascolto, l’uso della voce, l’immaginazione musicale, l’improvvisazione.

Il solfeggio non è buono o cattivo, dipende da come lo si fa

Questa osservazione potrebbe essere accettabile. In realtà, se eccettuiamo quelli interessati dalla tradizione parigina, la stragrande maggioranza dei paesi non ha mai conosciuto il solfeggio. In alcuni casi, come Francia e Austria, esso viene introdotto in una fase avanzata del percorso, dove la complessità ritmica non consente l’uso della voce o rende poco agevole quello dello strumento. In Italia esso è invece identificato con la fase iniziale della formazione, e questa, al di là dei migliori propositi didattici, non è una scelta neutra: come già detto, è la scelta di un percorso addestrativo, piuttosto che formativo.

Il solfeggio serve a preparare gli esami

Ecco un esempio di sonnolenza dei pensieri didattici: ordinamenti e programmi lentamente cambiano ma certe tipologie di esercizio continuano a vivere di vita propria, come altrettanti Frankenstein che si rivoltano al loro creatore conquistando dignità autonoma: le pratiche vengono scambiate per obiettivi, i mezzi diventano fini. I Licei Musicali, per esempio, sono dotati di programmi nei quali non si fa menzione del solfeggio tradizionale, che però in moltissimi casi occupa di fatto le attività di Teoria, Analisi e Composizione del primo biennio. Similmente, appaiono pubblicazioni su scala nazionale che si riferiscono a solfeggi d’esame e prove di dettato (melodico) dando per scontato che, nonostante non vi sia alcuna programmazione ufficiale in tal senso, dal 1930 queste restino la sostanza indiscussa del lavoro formativo musicale. Del resto, quando fu concepita la riforma dei conservatori, nel 1999, lo sforzo creativo per superare la dizione “Teoria, solfeggio e dettato musicale” non andò oltre l’attuale “Teoria, ritmica e percezione musicale”: se qualcuno nutrisse dubbi circa il fatto che il solfeggio è una questione meramente ritmica, troverebbe qui sicure conferme. E che dire del solfeggio alla Primaria? La sua introduzione negli anni ’30 fu l’origine del rigetto che ancora oggi tiene lontana la scuola italiana da una genuina alfabetizzazione musicale.

E allora coraggio: collochiamo il solfeggio semmai alla fine, e non all’inizio del percorso formativo musicale: ci accorgeremo che se ne farà ricorso in ben pochi casi. Usiamo il buon senso per fare delle nostre pratiche didattiche attività genuinamente musicali: l’inglese si impara con l’inglese, la musica con la musica. Inventiamo, ma nel contempo impariamo dalla tradizione più genuina, non solo quella dei pochi ultimi decenni che pesano oggi sulle nostre spalle, ma anche dei lunghi secoli che ci tramandano conoscenza musicale profonda e saggezza pedagogica.

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