“VOCI DALLA TRADIZIONE”. IL CANTO SPONTANEO DELLA TRADIZIONE ORALE COME PRASSI FORMATIVA
di Patrizia Rotonda
La musica ha una lunga storia di evoluzione e diffusione, e per diversi secoli si è sviluppata seguendo un sistema di trasmissione e testimonianza non scritta. Possiamo quindi affermare che la musica affonda le sue radici nelle tradizioni orali, pratiche che ancora oggi sono presenti in molti territori, nell’ambito della cultura popolare.

Le origini della musica antica della nostra penisola, che hanno influito sulla musica accademica successiva, sono ancora presenti nella tradizione orale e identificabili in diversi documenti sonori ripresi da antropologi ed etnomusicologi a metà del XX secolo. Nel canto della cultura popolare sono distinguibili alcuni stili e forme musicali quali: il canto melismatico elemento distintivo del canto gregoriano, il discanto e canto ad organum di epoca medioevale, tra le prime forme polifoniche così come l’Hoquetus del XI e XII secolo, e altre ancora. Allo stesso modo, alcune vocalità, riconoscibili in ambito popolare occidentale, hanno contribuito a realizzare il folk e influenzare i generi moderni, dal pop al jazz.
Il canto di tradizione orale è espressione della cultura popolare di origine agro pastorale. È un canto funzionale e nasce in funzione del rito, sia esso sacro o profano.
Moltissimi sono i generi e le forme musicali poiché il canto crea un forte legame con la vita quotidiana della comunità e accompagna tutta l’esistenza dell’individuo, dalla nascita fino alla morte.
Si differenziano in canti: narrativi, a contrasto, lirici o da intrattenimento, di lavoro, religiosi, sociali, ninna nanne, serenate, lamenti funebri. Inoltre ogni genere avrà una diversa espressione a seconda del territorio in cui è cantato, per esempio il canto lirico in Toscana sarà espresso in ottava rima, in Campania sotto forma di fronna o a ffigliola, in Sardegna con il mutu o muttettu, altrove sarà strambotto o stornello. Ogni paese ha i propri modi musicali ed estetiche del canto, nonché un diverso appellativo anche a parità di genere, in rapporto alla zona di appartenenza. Queste notevoli differenziazioni, numerose varianti e nomenclature sono il segno di un forte radicamento nel tempo, in un’area evidentemente molto vasta del territorio Italiano.
Una delle espressioni ricorrenti oltre alla forma monodica a cappella, o polifonica se accompagnato da strumenti musicali, è quella del canto polivocale, termine riferito al repertorio vocale di tradizione orale che si distingue da polifonico in quanto generalmente si sviluppa con cadenze omoritmiche anziché poliritmiche.
I gruppi dei cantori possono essere di tipo spontaneo, ossia non organizzati. Si ritrovano in occasioni di lavori stagionali o in ambito di divertimento come l’osteria o le feste locali e ritrovi ludici.
I gruppi spontanei:
– cantano in modo occasionale senza una distribuzione delle parti
– non prevedono un solista stabile
– tutte le voci sono interscambiabili.
Questi si distinguono da altri gruppi polivocali, che si costituiscono in ambito lavorativo più ordinario o paraliturgico, in cui le presenze possono variare ma:
– il solista è sempre distinto
– le altre voci sono annesse per consuetudine.
Oppure dai gruppi fissi ad accordo come in Sardegna, costituiti da:
– quartetti a voci stabili
– cantano insieme tutto l’anno con un repertorio profano e uno sacro che viene ripreso ogni anno in prossimità dei rituali liturgici nelle varie festività.
Sono seguiti da giovani cantori, che nello studio si affiancano ai cantori anziani e realizzano a loro volta nuovi quartetti.

Negli ultimi anni si è molto diffuso il canto di riproposta in forma monodica e corale che, pur attingendo al repertorio tradizionale e alla cultura popolare, ne rielabora la forma e il significato, scollegandola dal suo contesto e dalle sue funzioni originarie a favore di una rappresentazione artistica.
In particolar modo nelle città, sono nati moltissimi cori di riproposta sia nell’ambito dei centri sociali che all’interno di associazioni culturali e scuole di musica, trovando un’importante funzione aggregante e diventando luoghi di socializzazione e di espressione culturale.
È a cominciare dagli anni ’60 fino agli anni ‘80/90, che si sviluppò quel fenomeno musicale e culturale definito folk revival, lanciato prima negli Stati uniti e poi diffuso anche in Europa annesso al movimento denominato controcultura. Si diffuse prevalentemente tra i giovani e gli intellettuali a vantaggio di una politica di interesse sociale, in contrapposizione al sistema egemone. Ciò permise di scoprire, divulgare e valorizzare anche le culture altre, quelle popolari e strettamente territoriali attraverso la riproposta di musiche e canti tradizionali; dal canto contadino a quello sociale.
Con la fine del folk revival come movimento socioculturale, continuarono comunque a espandersi e svilupparsi la musica e i canti di riproposta.
Il canto polivocale, nella riproposta, viene generalmente sviluppato e presentato sotto forma di corale adattandolo alle norme ed estetiche classiche come da tradizione accademica, per esempio:
– si ricerca un’omogeneità vocale
– è presente un direttore che segnala gli ingressi, segue una pulsazione e ricerca le dinamiche
– in un coro misto, i coristi sono suddivisi in quattro sezioni, come da tradizione classica, due maschili (tenori e bassi) e due femminili (soprani e contralti)
– o altre convenzioni ed estetiche consuete.
Quindi, sebbene questi brani siano acquisiti dalla tradizione orale, la prassi esecutiva estranea ne determina inevitabili mutamenti che modificano la natura e l’estetica propria del canto originario.
D’altra parte potrebbe essere molto interessante sovvertire questa pratica e scoprire quanti vantaggi e ricchezza pedagogica si possa recuperare nel sistema di apprendimento e restituzione, proprio di un gruppo spontaneo della cultura popolare, pensando di utilizzare anche solo alcuni dei processi esecutivi, limitato al risultato sonoro che si voglia perseguire.
Per quanto mi riguarda, già da diversi anni, sono proiettata verso il completo impiego di queste pratiche ispirate ai gruppi polivocali spontanei in cui, per esempio:
– le voci sono di tipo naturale (o con vocalità ispirate a timbri tipici della tradizione), non uniformi e quindi distinguibili
– non è prevista alcuna direzione, la pulsazione è fluttuante e ciò comporta estremo ascolto ma anche eventuali eterofonie
– le dinamiche emergono spontaneamente per aggiunta e sottrazione delle voci
– non esistono ruoli fissi per le voci, il che permette a ogni partecipante di scegliere la propria parte e spostarsi tra le diverse linee vocali durante l’esecuzione.
Questo ovviamente prevede un’estrema competenza dei coristi e richiede molto più impegno nell’apprendimento e nell’esecuzione ma allo stesso tempo stimola lo sviluppo di abilità musicali più avanzate grazie alla responsabilità individuale nella gestione delle voci, che affina l’orecchio armonico allenandolo all’ascoltoattivoe dinamico, e sollecita una grande indipendenza e coesione del gruppo per l’assenza di una direzione rigida.
In sintesi, il canto spontaneo della tradizione orale non solo integra e mantiene viva la cultura popolare, ma svolge anche un’importante opera formativa, rafforzando i legami comunitari e la memoria storica. Agisce come un sistema di connessione identitaria ed autentica presenza.
Articolo molto bello, che sintetizza bene la funzione storica, culturale e di aggregazione del canto pervenuto attraverso la tradizione orale.
Interessante in particolare il discorso educativo e i temi identitari, che restituiscono valore al canto popolare e soprattutto alla coralita.
Grazie per il suo commento.
Penso che nelle tradizioni di cultura popolare, troviamo sostanzialità e concretezza poetica. E mentre le cose mutano è importante monitorare le trasformazioni e provare a cercare nuove modalità senza tradire in modo disarmonico quella che è l’origine.