L’AURA NON C’È. ORIGINALITÀ E RIPETITIVITÀ NELLA MUSICA

di Alberto Odone

Tempo fa, quando ancora il Compact Disc era il supporto digitale più utilizzato, vi sarà forse capitato di sentirvi rivolgere per gioco una domanda: se dovessi un giorno restare su di un’isola deserta quale CD ti porteresti? 
I più scaltri già accennavano almeno a un cofanetto, a un doppio, per poter strappare minuti preziosi di ascolto in un’angustia insopportabile per qualsiasi audiofilo. Oggi è diverso, perché se puoi compilare la playlist del cuore significa che hai accesso all’intero scibile musicale, e il gioco non vale più. In ogni caso, io mi sarei portato i Preludi e Fuga o le Toccate e Fuga per organo di Bach. Una scelta probabilmente non ai vertici delle classifiche, ma il bello è lì: ciascuno ha diritto di identificarsi con repertori che ad altri possono apparire estranei, risultare incomprensibili o per nulla attrattivi.
Un conto però è avere idee diverse sulla musica da portare sull’isola, un conto è pensare che ci siano intere categorie di musica da buttare a mare. È quello che capita di sentire o di leggere non così di rado, e anche trasversalmente rispetto ai generi: uno snobismo musicale che crede di poter distinguere sempre con sicurezza ciò che vale.

Anni fa una rivista musicale piuttosto qualificata mi chiese un articolo di argomento didattico musicale. Quando consegnai il mio lavoro ne ottenni una serie di rilievi negativi tale da indurmi a rinunciare all’impresa: la mia colpa consisteva essenzialmente nella ricerca, all’interno dei repertori più diversi, di strutture ricorrenti che rappresentassero elementi portanti non certo di un presunto linguaggio musicale universale ma di molte delle espressioni sonore con le quali siamo normalmente a contatto nell’ambiente in cui viviamo. Un esempio: la successione dei tre accordi fondamentali per una tonalità, Do, Fa e Sol in Do maggiore. Si tratta semplicemente dell’opportunità di familiarizzare con un vocabolario relativamente comune, per comprenderlo, interiorizzarlo, riutilizzarlo. Se non ci mettiamo all’opera per trovare varchi all’interno del linguaggio musicale la musica continua a restare fuori di noi, come spettatori passivi.
Al contrario, in questa forma di pensiero la ripetizione è considerata semplicemente segno di non originalità, di rinuncia alla ricerca di ciò che è artisticamente valido. In realtà la ripetizione, con le sue mille diverse modalità, è presente lungo tutti i secoli della storia musicale: potrebbe non esserlo? È la stessa struttura della mente umana a richiederlo: la nostra percezione, anche inconsapevolmente, è sempre alla ricerca di schemi che ci permettano di interpretare la realtà. Quale meravigliosa fioritura di suoni abbiamo ereditato dalla musica europea del Settecento? Eppure gli studi ci dicono che i compositori che reputiamo più felicemente creativi hanno elaborato modelli, cercando consapevolmente quelle ambientazioni musicali, quelle citazioni di genere (la musicologia parla di Topics) che rendessero l’uditorio subito consapevole di ciò di cui si stava “parlando” in musica, perché è sempre importante, in qualche misura, sentirsi a casa. L’aria sulla quarta corda di Bach non è una meravigliosa rielaborazione del Canone di Pachelbel? E quest’ultimo non è costituito da una serie di variazioni sul basso dell’aria rinascimentale nota come “La Romanesca”? E quanti brani di musica Pop ci tornano alla mente se pensiamo a questi modelli?

I puristi dell’arte musicale sono inoltre infastiditi dal fatto che la musica abbia una funzione ludica, o più semplicemente una funzione: la musica dovrebbe invece avere come scopo la pura fruizione estetica, altrimenti è commerciale, d’intrattenimento, d’uso o qualche altra qualifica dispregiativa del genere. Quella della cosiddetta musica assoluta, cioè slegata da qualsiasi finalità non estetica, è un’idea ottocentesca degna di rispetto fino a che non voglia insinuare che tutto il resto è spazzatura. Comprendere la funzione delle musiche (e certamente anche alla loro provenienza geografica) è indispensabile per capire perché sono fatte come sono fatte. E allora se non condividiamo l’intento di chi va in discoteca o a inginocchiarsi in una cattedrale dobbiamo però comprendere che le rispettive musiche hanno una qualità che corrisponde al loro scopo. La musica ripetitiva è alienante? Ma solo la possibilità di riconoscere le musiche e riconoscerci in esse rende attiva la nostra partecipazione all’evento musicale.

Tutto ciò non ci impedisce di formulare valutazioni, sapendo però che il confine più che una linea di demarcazione è un orizzonte, e che i problemi più veri nascono spesso, per esempio, da una riproduzione sonora a un volume tale da risultare narcotizzante, oppure dalle situazioni che obbligano all’ascolto di musiche che non scegliamo: sul treno, in spiaggia, al supermarket… per non parlare dell’inquinamento acustico, che sembra non rappresentare mai un problema. La prima nostra preoccupazione dovrebbe quindi essere la qualità del coinvolgimento soggettivo.

Finché la musica poteva considerarsi un evento artigianale, era circondata da un’aura di autenticità strettamente legata all’animo del suo creatore. Nell’era della “riproduzione digitale dell’opera musicale” (per parafrasare Walter Benjamin) quest’aura non c’è più, allontanata dalla diffusione globale, dalle potenzialità tecnologiche del fare musica e dalle più diverse occasioni e modalità del suo ascolto. Resta però la possibilità di un coinvolgimento attivo personale nell’evento musicale, ampliando, attraverso una formazione musicale estesa, la platea di coloro che hanno almeno qualche possibilità per riformulare a loro volta i modelli musicali che fanno parte del nostro vissuto, che ci danno la possibilità, allo stesso tempo, di riconoscerci come in uno specchio e di sentirci parte di una famiglia più grande.

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