SCUSI, MI SUONA “TANTI AUGURI A TE”? MUSICA CLASSICA E IMPROVVISAZIONE
di Alberto Odone
“Conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie dell’anima, quasi per nulla le malattie della mente” scrive Umberto Galimberti ne I miti del nostro tempo: “Eppure, anche le idee della mente si ammalano, talvolta si irrigidiscono, talvolta si assopiscono, talvolta, come le stelle, si spengono. E siccome la nostra vita è regolata dalle nostre idee, di loro dobbiamo aver cura, non tanto per accrescere il nostro sapere, quanto piuttosto per metterlo in ordine. […] Molti malesseri nascono non dalle emozioni […] ma dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono di comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti”.
Anche nel mondo musicale, e specialmente in quello accademico, vi sono idee che sonnecchiano, resistenti a qualsiasi sveglia, sulle quali però possiamo tornare e riflettere, per verificare se è proprio così che devono andare le cose, o se possiamo immaginare una prospettiva diversa, per evitare almeno qualcuno di quei malesseri che nascono da idee ormai spente e riscoprire qualcosa di ciò che la musica ha da dire in fatto di qualità della vita.
Un esempio? Che cosa affiora alla nostra mente, anche in modo inconsapevole, quando si parla di improvvisazione musicale? La prima idea ci rimanda al mondo del jazz, per il quale questa pratica è centrale e il repertorio, gli standard, sono spesso solo l’occasione per improvvisare. Associamo poi l’improvvisazione a qualcosa di aleatorio, di totalmente estemporaneo, non codificato, sinonimo di libertà totale. L’improvvisazione – terza idea – è poi legata alla spettacolarità, al virtuosismo solistico, e in questo caso l’esempio più iconico è forse quello dell’assolo chitarristico rock.
E che cosa dire del mondo “classico”, che ancora funge da modello per la didattica accademica così come spesso per la lezione casalinga di strumento? In questo caso sembra emergere immediatamente l’idea opposta: quella che ci indirizza alla riproduzione di un repertorio codificato e scritto. Ma è un’idea corretta?
Chi volesse sostenere un esame di strumento musicale eseguendo la musica di Beethoven così come Beethoven stesso la eseguiva andrebbe incontro a un insuccesso. Beethoven infatti si guardava bene dal suonare tutto e solo quello che aveva scritto, divertendosi piuttosto a preludiare, modificare i passaggi più convenzionali come le cadenze, inserire episodi improvvisati ecc. (non mi credete? Leggete per esempio gli scritti di Piero Rattalino – ahimè recentemente scomparso – e Luca Chiantore). Alcuni brani erano completamente inventati sul momento e altri risultano chiaramente la trascrizione di pratiche improvvisative. Tutto ciò faceva parte di una prassi comune a quel tempo, così come nelle epoche precedenti. Dunque possiamo archiviare l’idea numero uno: l’improvvisazione non rimanda semplicemente al jazz. Pensando a Beethoven potremo poi ricrederci anche sulla seconda idea: le libertà esecutive che si concedeva si presuppone fossero coerenti con il resto del brano, quindi qualcosa di tutt’altro che aleatorio (ciò non toglie che l’aleatorietà possa essere, in altri contesti, una forma di improvvisazione). Quali sono i presupposti di questa pratica?
Qualcuno obietterà: “be’, ma Beethoven era Beethoven, e io non sono Beethoven…”; e qui abbiamo l’occasione per prendere le distanze anche dalla terza idea, quella della spettacolarità. Il virtuosismo e le abilità mirabolanti di molti esecutori specialmente ottocenteschi (uno su tutti: Franz Liszt) hanno portato a pensare che l’improvvisazione fosse un dono riservato ai pochi in grado di ammaliare l’uditorio con gesti musicali spettacolari. In realtà, la condizione perché l’improvvisazione torni a essere una pratica comune anche in ambito “classico” è che nella formazione musicale la tecnica strumentale non si sviluppi indipendentemente dal possesso del linguaggio musicale, come invece avviene praticamente sempre in questo ambito. Le conseguenze didattiche di questa rilevazione sono radicali e comporterebbero un ripensamento profondo dei nostri percorsi di formazione.
Che cosa significa “possesso del linguaggio musicale”? Significa potersi esprimere con i suoni in modo quotidiano, immediato, dicendo qualcosa di nostro, anche se non per forza originale, così come faremmo con il linguaggio parlato per chiedere un caffè al bar. Chi parla una lingua improvvisa, senza per forza declamare poesie. Ciò può avvenire se la padronanza tecnica dello strumento è cresciuta insieme alla conoscenza, esplicita o implicita, del “come funziona”.
Al contrario, la venerazione ottocentesca per l’opera musicale, codificata dalla notazione e consacrata dall’inclusione nel “Repertorio”, ha portato a una sorta di dismissione della conoscenza musicale. Fino a quell’epoca l’esecutore, pur non essendo per forza un compositore di grido, era comunque un musicista in grado di ideare, variare, improvvisare musica. Ora invece compositore ed esecutore non coincidono più nella stessa persona. Se l’opera è perfetta e perciò intangibile, all’esecutore non resta che un’unica missione: la fedeltà al testo musicale. Di conseguenza, la formazione strumentale alleggerisce il bagaglio formativo riducendolo a ciò che è ritenuto necessario e sufficiente: tradurre la notazione in gesto strumentale. Ecco la centralità della tecnica, delle note e dei ritmi, e l’abbandono di tutto ciò che è estemporaneo: improvvisazione ma anche pratica dell’abbellimento, realizzazione tastieristica di un basso ecc. escono definitivamente dai metodi e dalle lezioni di strumento.
Per nostra fortuna, nella riscoperta dei processi di acquisizione del linguaggio musicale abbiamo degli alleati. La riflessione musicologica e la sperimentazione didattica stanno riportando alla nostra attenzione negli ultimi anni le molteplici forme di creazione musicale estemporanea che le diverse epoche del passato ci testimoniano. Persino la polifonia rinascimentale ha perso l’aura di astrazione scientifica, di gioco combinatorio “a tavolino” per dar spazio all’esecuzione improvvisata, recuperando le pratiche di composizione estemporanea comuni a quell’epoca (per esempio, cercate su Youtube l’Ensemble Coclico).
Ma è la scuola napoletana del Settecento a farla da padrona, a partire dalla riscoperta del “partimento”, nome che raccoglie in sé il riferimento a un’ampia serie di pratiche volte a sviluppare la conoscenza soprattutto implicita del funzionamento della tonalità, quel possesso del linguaggio musicale di cui si è detto.
Si mostra qui come la formazione musicale, anche e soprattutto se indirizzata alla professione, possa prendere le mosse non dall’obbedienza al segno esterno ma dal dialogo fecondo fra lo strumento e la mente, praticando frammenti di discorso musicale (modelli, schemi, “regole” intese come pratiche esemplari) che divengono familiari alla mano e all’orecchio, un vocabolario da trasformare infinitamente nell’improvvisazione, applicare nella composizione, riconoscere e variare nell’esecuzione del repertorio. Il ruolo della scrittura non è smarrito ma si trasforma diventando innanzitutto suggerimento, richiamo a modelli condivisi che spetta al musicista realizzare e rendere nuovi ogni volta.
Tornando dunque alle tre idee iniziali sull’improvvisazione, possiamo innanzitutto constatare quanta ricchezza di spunti derivi da stili ed epoche diverse. In secondo luogo, un paradosso: la novità e l’originalità che attribuiamo all’improvvisazione presuppongono la familiarità con i modelli di un linguaggio comune. Lo sviluppo delle abilità improvvisative, in terzo luogo, non esclude la spettacolarità ma risulta innanzitutto un percorso di costruzione dell’io musicale, la modalità con cui la musica coinvolge il soggetto, la sua immaginazione auditiva, l’intelligenza, la sensibilità, evitando che l’evento musicale si produca semplicemente al di fuori di noi.