GIOVANNI TOMMASO. CAN YOU TEACH JAZZ?
di Eloisa Manera e Piero Chianura
Contrabbassista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra, Giovanni Tommaso fa parte di quella generazione di musicisti italiani che ha potuto condividere il palco con i più grandi della storia del jazz internazionale. Dopo aver fondato nel 1957 il Quartetto di Lucca si trasferisce a New York tra il 1959 e il 1960. Rientrato in Italia, fonda nel 1972 l’innovativa band dei Perigeo (con Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Bruno Biriaco e Tony Sidney) suonando a fianco di gruppi come Weather Report e Mahavishnu Orchestra e collaborando con grandi nomi del jazz nordamericano. Giovanni Tommaso nasce autodidatta ma il suo impegno nella didattica gli apre a inizio anni ‘90, a 50 anni compiuti, le porte dell’insegnamento jazz in Conservatorio. Non è un caso, visto che è direttore da oltre 35 anni di Umbria Jazz Clinics, le session didattiche organizzate dal più importante festival jazz italiano, in collaborazione con la prestigiosa Berklee College of Music di Boston.
L’occasione per intervistare Giovanni Tommaso è l’uscita della sua autobiografia Abbiamo Tutti un Blues da Piangere (2021, Albatros), che riprende il titolo del secondo album dei Perigeo per raccontare storie di vita personale e artistica vissuta dagli anni Cinquanta a oggi da questo straordinario protagonista della musica jazz.
MusicEdu (Eloisa Manera) Una domanda che tu poni all’interno del tuo libro è: “Can you teach jazz?”. Si può insegnare jazz?
Giovanni Tommaso Hai messo il dito nel punto focale della musica jazz perché il valore del jazz è la possibilità di esprimere idee, sensazioni, attraverso il linguaggio dell’improvvisazione. Ora, siccome l’improvvisazione scaturisce non si sa da che cosa perché è un fenomeno estemporaneo, è molto difficile codificarlo. Allora che cosa possiamo codificare e apprendere nel jazz? Per prima cosa la tecnica del proprio strumento e poi la conoscenza del linguaggio musicale e dell’armonia in cui ritroviamo anche il linguaggio dell’improvvisazione, su cui gli insegnanti e i libri possono dare “dritte” importantissime. Oggi abbiamo addirittura intere enciclopedie sull’argomento! Ricordo che negli anni Cinquanta non potevamo andare a lezione alla Berklee di Boston e allora ci facevamo spedire le dispense per corrispondenza, le compilavamo, ricevevamo il voto e andavamo avanti a studiare così. Ieri come oggi, insomma, si può arrivare più velocemente a diventare un buon professionista di jazz studiando, quindi Dio salvi le scuole! È però vero che da un certo livello in poi, per diventare un grande jazzista la scuola non basta e, anzi, direi che se fai un percorso da solo, arrivi a un certo livello più tardi, ma ci arrivi meglio perché ci sei arrivato da solo.
MusicEdu (Piero Chianura) La vostra generazione ha imparato il jazz senza molti strumenti didattici a disposizione e andandosi a cercare le risorse da soli. Ai giovani jazzisti di oggi, invece, non manca proprio nulla di questi strumenti.
Giovanni Tommaso Quando avevo 18 anni, ricordo che dopo un concerto a Bologna il più importante critico francese scrisse in una recensione del concerto che ero un enfant prodige, perché avevo un linguaggio che non aveva mai ascoltato prima. Io ero appena tornato dal mio soggiorno newyorkese, che per me è stata la mia Università, e usavo un linguaggio che in Europa in quel momento non aveva nessuno. Però, a essere obiettivo, ogni volta che vado a sentire un concerto di jazz, spesso il contrabbassista ha più tecnica di me, perché io la mia tecnica me la sono formata da solo. Conosco i miei limiti e negli ultimi anni ho sviluppato una strada che tiene conto di questi limiti tecnici, che sono quasi fisiologici per lo stile che mi piace suonare. Ci ho riflettuto quando ho assistito al concerto di “un signore danese” che si chiamava Niels Pedersen a un’edizione del festival jazz di Lugano. Incredibile! Grazie a lui ho cercato una stradina in cui mi riconosco di più e in cui la tecnica che possiedo mi permette di esprimermi.
MusicEdu (EM) Questo aspetto viene fuori nel libro quando parli di Enrico Rava. Rispetto alla tecnica ci sono due possibilità: o si cerca di raggiungere il massimo livello tecnico, e a quel punto l’espressività potrebbe ridursi al dover dimostrare le proprie “capacità ginniche”; oppure ci si concentra sulla ricerca espressiva, in cui i limiti tecnici non sono così evidenti. Tu affermi che la tecnica è necessaria “quanto basta” per trovare quella che tu chiami “piccola strada”, ma che io penso sia il senso del jazz.
Giovanni Tommaso Nel jazz può succedere che un musicista che ha meno tecnica di un altro, che è meno virtuoso e suona più velocemente di un altro, non sia né meglio né peggio, ma semplicemente diverso. E la reazione dell’ascoltatore alle due esibizioni così diverse fra di loro può essere influenzata non solo dalla tecnica, ma anche dalla personalità e dal linguaggio, perché il fraseggio ha più essenza, valore e quindi colpisce ugualmente. Spesso accade che chi è in possesso di maggiore virtuosismo, colpisca di più l’ascoltatore. Ma se penso nella storia del jazz a certi sassofonisti, per esempio Lester Young che negli anni ’30-’40 ha suonato in diversi dischi anche di Billie Holiday, facendo dei commenti sotto l’esposizione tematica della voce e qualche assolo con pochissime note, ma così espressive e di una tale bellezza timbrica, ebbene: lui era forse più apprezzato di molti suoi colleghi contemporanei che avevano un’enorme tecnica. Lo stesso discorso vale per le voci, a partire proprio da Billie Holiday, ma anche Edith Piaf.
MusicEdu (PC) L’attenzione nei confronti della tecnica o dell’espressività è cambiata nel tempo e nei generi musicali: ci sono stati anni in cui l’espressività era più apprezzata e anni in cui la tecnica ha prevalso. Proprio nel jazz e nella fusion, la didattica statunitense ha insistito molto sull’aspetto tecnico negli ultimi decenni, mentre oggi si torna a rivalutare l’aspetto espressivo ed emotivo della musica. Non è un caso che la precisione metronomica e la velocità siano stata un’aspirazione dei musicisti a partire anni Ottanta con l’arrivo dei computer e della tecnologia digitale.
Giovanni Tommaso Dal punto di vista virtuosistico c’è stata un’evoluzione, non c’è dubbio, anche se con qualche eccezione. Penso, per esempio, a un pianista che negli anni ’40 ebbe un grosso seguito: Art Tatum e la cui tecnica potrei dire che rimane ancora insuperata. Però, detto questo, insieme alla tecnica si è evoluto un po’ tutto ciò che ruota attorno alla musica, anche se, parlando per esempio di registrazione, la purezza di alcuni lavori di decenni fa per me sono insuperabili, perché quando si interviene con l’elettronica su uno strumento ripreso con un buon microfono, vuoi con un filtro, vuoi con un effetto, la presenza audio perde un po’. L’elettronica sicuramente ha un pregio, perché permette di fare cose che con gli strumenti acustici non si possono fare. Però quando ho cominciato a fare computer music mi sono subito reso conto che non era possibile realizzare quello che noi chiamiamo walking bass, ovvero quella scansione dei quarti in cui è evidente lo swing. È lo swing che dà calore all’esecuzione e che potresti ricondurre all’imperfezione. Ed è proprio l’imperfezione a rendere perfetto il jazz! Noi contrabbassisti siamo uno diverso dall’altro: c’è chi tende ad aggredire il quarto e quindi è un po’ “avanti” e c’è chi è un po’ “indietro”, e vanno bene tutti e due. Soltanto che hanno diverse caratteristiche, diverse personalità. L’imperfezione è quella marcia in più che hanno i jazzisti, i musicisti, l’uomo in altre parole. Nella musica classica questo è ancora più sublime perché una frase “rubata”, come si dice in musica classica, è diversa da un pianista a un altro e niente è identico, non solo per il tempo, ma anche per quella componente espressiva che nella classica è molto più evidente.
MusicEdu (EM) Nel tuo libro ci sono alcuni elementi che ritornano. Il primo è il monito di tuo padre: “Se lo fai, fallo bene!”; poi c’è la massima di un filosofo greco che recita più o meno: “Tante cose ci spaventano, per l’immagine che ne abbiamo, ma in realtà si tratta ‘semplicemente’ di farle, di entrare in azione”, e di questo la tua vita ne è un chiaro esempio.
Giovanni Tommaso Quello di Epitteto, maestro dello stoicismo, mi ha colpito molto in un momento della vita in cui avevo bisogno di aiuto. Mio padre, invece, era un letterato e quando dovevo dirgli che non avrei più studiato ero molto preoccupato della sua reazione anche se ero molto determinato. Ma lui mi disse quella frase bellissima. Lì ho capito quando sia efficace un commento che è anche un messaggio educativo: se tu fai la scelta con il permesso di una persona lungimirante, aperta di idee, poi ti senti più responsabile.
MusicEdu (EM) Nel libro parli anche del saxofonista Sonny Rollins, un tuo riferimento importante per l’idea che esprime nei suoi soli di tema variato, delle variazioni, delle microvariazioni e della creatività che ci vuole per sostenere un’improvvisazione che parta da questa concezione.
Giovanni Tommaso Ho amato Sonny Rollins fin dalla prima volta che l’ho sentito dal vivo al Festival Jazz di Sanremo, che si svolgeva al vecchio Casinò a un mese di distanza dal Festival della canzone. Io suonavo con l’allora quintetto di Lucca e mi trattenni due giorni perché c’erano un sacco di musicisti che volevo ascoltare tra cui il trio composto da Sonny Rollins, il bassista Henry Grimes e il batterista Pete La Roca. Mentre Rollins suonava un brano, negli assoli successivi citava il tema con qualche commento e qualche fioretto intorno, aumentando a mano a mano i commenti al tema. E trovava il modo di infilarcelo sempre anche quando non c’era più spazio. Insomma, era una scelta stilistica che non avevo mai sentito fare da nessun altro e quindi mi affascinò tantissimo. Capii anche quanto è importante l’esposizione del tema, mentre i jazzisti più giovani non vedono l’ora di liberarsene per suonare i soli. Ma il tema è quello che apre lo scenario. Se tu non apri lo scenario, la visione che hai davanti resta piccola!
MusicEdu (PC) Ci puoi parlare del tuo progetto didattico “Jazz Day Hospital“?
Giovanni Tommaso È un progetto in cui credo moltissimo. Divido gli allievi in gruppi, possibilmente in quintetti, e gli chiedo se hanno qualche suggerimento su come suonare un brano che conoscono tutti senza bisogno di leggerlo. Dopo che il gruppo si è accordato sul brano, sulla tonalità e sulla struttura, inizia l’esecuzione. Al termine dell’esibizione interviene il “Dottor” Giovanni Tommaso anzitutto incoraggiandoli, perché il mio compito non è distruggerli o stroncarli. Allo stesso tempo però faccio notare loro le parti più vistosamente deficitarie. Per esempio, se dico a un trombettista che nel tema tira indietro, posso esprimere un concetto importante nel jazz: quando si eseguono i temi all’unisono, non è un problema se la pronuncia non è perfetta, sincronizzata, anzi si ha più calore con una qualche percentuale di sfasamento. Però se il trombettista tira indietro è un difetto. Faccio commenti di carattere specifico a ogni musicista, cercando di entrare in una sfera a un livello superiore, fino al suono, cercando di stare attento a non offendere la loro sensibilità. Ma il dovere di un buon medico è dire la verità. È un processo molto costruttivo e anche divertente perché dopo la critica che rappresenta la diagnosi, c’è la prescrizione per la cura e dopo la cura si vedono i miglioramenti verso la “guarigione”, che è evidente durante l’esibizione finale.
MusicEdu (EM) Un altro interessante spunto didattico nel libro è la tua teoria sulla Piramide musicale, che mette il suono al vertice e sotto la melodia; poi il ritmo e il fraseggio affiancati e in basso l’immagine.
Giovanni Tommaso È una cosa che si spiega un po’ da sola. Ho disegnato una piramide in cui ho messo quelle che secondo me sono le caratteristiche peculiari del jazz. Se noi ascoltiamo quattro note cantate da Louis Armstrong, lo riconosciamo subito. Significa che quel suono è molto personale, individuale e perciò riconosciamo chi lo produce. Quindi il timbro e il suono sono la cosa secondo me più importante. Poi c’è la melodia che è figlia del suono, o sua gemella se vogliamo. Poi viene il ritmo, che nel jazz è fondamentale. È la parte più fisica, più comunicativa della musica jazz. Dall’altro lato c’è il fraseggio, che è il risultato della sensibilità del musicista, ma anche del suo intelletto e costa grande fatica. Tutte queste tre componenti si mescolano magicamente nell’improvvisazione: è lì che emerge il frutto di queste componenti. L’immagine è invece ciò che noi vogliamo che il pubblico veda ed è figlia della costruzione del progetto. Molti la lasciano al caso mentre molti famosi musicisti di jazz avevano una loro personalità anche nel modo di vestirsi e di presentare la propria immagine al pubblico, inizialmente in modo istintivo, ma poi costruito. Puoi avere un’attitudine innata all’eleganza, però poi la sfrutti come immagine costruita. Miles Davis, per esempio, negli anni ’50 e ’60 era elegantissimo. È stato lui a influenzare molti jazzisti a vestirti con la cravatta, la giacca e i pantaloni. Quando poi è diventato il Miles Davis elettrico, ha cominciato a indossare di tutto e la sua immagine è cambiata.
Ho conosciuto Giovanni Tommaso nel 2004 alla Clinics di Umbria Jazz, sono Fabio Italia, chitarrista. Nella vita musicale poi non sono stato fortunato ed anche nella vita in genere e così arrivato a Varese per entrare in comunità nel 2005 per abuso di alcol, sono rimasto a Varese a vivere e adesso insegno nei corsi comunali, chitarra moderna e Blues, nel jazz non ho più avuto la possibilità di suonare. Comunque grazie anche all’attestato della Clinic che ho avuto questo posto. Grazie Giovannii…..non sarà molto ma è sempre meglio che niente. Ciao, Fabio