MUSICA DIGITALE LINEARE E COMPRESSA. ASCOLTARE CONSAPEVOLMENTE
di Piero Chianura
Come tutte le innovazioni che hanno investito il mondo dei supporti fonografici, anche quella del formato digitale compresso MPEG era stata pensata per rispondere alle nuove esigenze del settore audio/video. Nello specifico si trattava di ridurre la quantità di dati necessaria a rappresentare un brano musicale (o un filmato) convertito in digitale, così da poterlo trasmettere velocemente attraverso il neonato World Wide Web, ma anche per conservarlo sugli allora poco capienti supporti di memorizzazione (eravamo a fine anni Ottanta). Furono queste le ragioni della nascita del formato audio compresso MP3 (MPEG layer 3) ancora oggi così diffuso.
Detto questo, dovremmo domandarci se oggi sia ancora necessario comprimere in maniera “distruttiva” brani musicali in formato digitale per poterli trasmettere velocemente e conservarli senza problemi di spazio.
La risposta dovrebbe essere “no”, perché non abbiamo più quei limiti di velocità nella trasmissione e di capienza nei dispositivi di memorizzazione.
Allora perché continuiamo a utilizzare il formato Mp3 per ascoltare musiche che, oltretutto, vengono oggi prodotte digitalmente negli studi di registrazione in formato non compresso e quasi sempre ad alta risoluzione? Non potremmo continuare ad ascoltarli almeno nella qualità cd audio lineare a 16 bit/44.1 kHz?
La risposta più semplice è che la diffusione della musica “liquida” in formato Mp3 ci permette di accedere a un immenso catalogo in qualunque luogo ci troviamo e alla stessa qualità media garantita da questo standard ormai universale.
Da musicista, riconosco la differenza tra un brano Mp3 a 128 kbit/s e il suo master ben registrato in studio ad almeno 24 bit/48 kHz, ma solo quando utilizzo sistemi di riproduzione capaci di metterla in evidenza. Se, come capita spesso, mi invitano ad ascoltare musica su piattaforme audio streaming in mp3, pur attraverso un paio di cuffie decenti, lo faccio sapendo ciò che potrei perdere, almeno dal punto di vista psicoacustico (è qui che lavora la compressione Mp3).
Consapevolezza è la parola chiave. Quella a cui sarebbe utile aspirassero tutti gli ascoltatori attivi di musica oggi, quando scelgono il formato di ascolto della loro musica preferita.
È interessante però osservare il contesto generale in cui siamo tutti inseriti come navigatori del web. Da qualche decennio siamo immersi nell’era dell’accumulo di contenuti digitali. All’inizio di questa era, la disponibilità gratuita di questi contenuti ci ha permesso di costruire le nostre library infinite di musica, fotografie e film comodamente allocate nei nostri sempre più capienti hard disk.
Per accumulare tutto questo, noi ascoltatori abbiamo pagato senza rendercene conto un piccolo prezzo in termini di qualità. Piccolo perché, come detto, quale ascoltatore medio di musica sarebbe in grado di percepire la differenza tra un brano in formato .wav e uno in formato .mp3 (mediamente compresso a 256kbit/s) attraverso comuni auricolari come quelli oggi acquistabili a poco più di una decina di euro?
Allargando ancora di più la visione, il fenomeno della digitalizzazione dell’informazione, in generale, ha posto le basi per una forte affermazione degli aspetti quantitativi rispetto agli aspetti qualitativi. Pensiamo, per esempio, a quanto è facile intessere rapporti con tante persone senza dare valore a nessuna di loro. È proprio sulla qualità dei rapporti che i social hanno ridotto la nostra capacità di interagire con gli altri. Possiamo parlare con tutti, su più canali social differenti, senza approfondire davvero la conoscenza di nessuno.
Riportando il discorso alla musica “liquida” disponibile online, probabilmente abbiamo ascoltato con attenzione e approfondito nei suoi contenuti una percentuale molto ridotta dei brani inseriti nelle nostre infinite playlist di mp3. E sarà stata probabilmente la disponibilità gratuita di quei brani (il cui ascolto oggi paghiamo attraverso l’assunzione di pubblicità) a spingerci ad accumulare musica che non ascolteremo mai attentamente.
È in questi termini che l’acquisto di un brano musicale ha un ruolo fondamentale nell’assegnare un valore alla musica che ascoltiamo e, di conseguenza, alla musica che produciamo, invertendo l’approccio da quantitativo a qualitativo. Nel momento in cui paghiamo lo streaming o il download di musica, oggi è anche possibile accedere a file audio digitali non compressi e ad alta risoluzione, la cui trasmissione e memorizzazione oggi non è più un problema, riavvicinando così la qualità di chi produce a quella di chi ascolta musica.
Un alto risvolto interessante dell’approccio qualitativo è che esso porta naturalmente a una maggior selezione di ciò che ascoltiamo, spingendo alla ricerca. La ricerca della “nostra” musica è legata alla curiosità, che per molti significherà anche approfondire i contenuti di un brano oltre il semplice ascolto all’interno di una playlist, all’interno della quale quel brano finisce spesso per risultare anonimo, traccia dopo traccia.
Una piattaforma di ascolto qualitativa deve poter offrire all’ascoltatore tutte le informazioni utili a “fare amicizia” con la musica che ascolta: nome e bio dell’artista, collaborazioni e ambiti di riferimento musicali, interviste, ecc… senza per questo escludere i consigli elaborati dagli algoritmi della piattaforma. Sì, perché non si tratta di tornare al passato rinnegando lo sviluppo tecnologico, ma di usare la tecnologia per far crescere ascoltatori attivi e consapevoli.