QUALE MUSICA? OVVERO QUANDO IL GIOCO SI FA DURO…
di Margherita Tomasi
Nell’esperienza quotidiana dell’insegnante di educazione musicale si pone spesso la questione di quale sia la musica più adatta a “essere insegnata”.
Tutti proveniamo da studi molto seri di Conservatorio e, spesso, parallelamente di Università. Viene naturale pensare di far conoscere ai nostri studenti il repertorio che abbiamo amato e per il quale siamo diventati musicisti e cioè, altrettanto spesso, il repertorio classico. Qualsiasi altra scelta ci appare un ripiego. Questa esigenza di trasmettere cultura “alta” si scontra però di frequente con gli interessi degli alunni, che, con il passare degli anni, hanno sempre meno contatti con la musica classica, sia in famiglia, sia, tranne in rari casi, nel percorso scolastico che precede l’ingresso nella scuola secondaria di primo grado.

Pur rimanendo convinta della necessità di offrire ai ragazzi un panorama il più possibile ampio sui più vari aspetti della musica (e soprattutto di quella che non conoscono), in particolari contesti e situazioni ho sentito personalmente la necessità di proporre inizialmente percorsi diversi, per esempio di ascolto, che fossero da loro percepiti come maggiormente affini e coinvolgenti. Solo in un secondo momento si sarebbe tornati al repertorio classico, nell’ottica di esercitare comunque un confronto critico tra repertori e fornire spunti interessanti per la prova orale dell’esame finale.
Ne è nato un progetto interdisciplinare interessante, sviluppato in collaborazione con una collega di italiano, che ha previsto l’analisi di una canzone proposta dagli studenti, scelta rispettando l’indicazione di attingere realmente dal repertorio di canzoni abitualmente ascoltate, senza tener conto di eventuali condizionamenti, espliciti o impliciti, degli adulti di riferimento (genitori, docenti, educatori).
Ovviamente la scelta, libera, è stata decisamente ed entusiasticamente provocatoria e il lavoro si è concentrato sulla canzone “Il Doc 3” di VillaBanks.
L’analisi del testo è stata complessa e sfidante per gli studenti, che hanno dovuto tradurre in un italiano socialmente accettabile un contenuto pesante per lessico e immagini proposte e per i docenti, ostinati nel tentare di convincere i ragazzi che non esistono testi o contenuti che non possono essere materia di studio, che cioè non possono entrare a scuola. Lo studio deve essere scientificamente organizzato ed è proprio la scuola il luogo in cui affrontare con spirito critico e ampiezza di vedute argomenti delicati o, come in questo caso, decisamente imbarazzanti. L’analisi ha così prodotto una serie di riflessioni molto interessanti e inaspettatamente mature, riguardanti in primo luogo il linguaggio e la sua evoluzione, ma anche temi sensibili come il ruolo della donna nella nostra società, la violenza di genere in tutte le sue declinazioni, il fascino che esercita sui giovani tutto ciò che viene proibito, tra gli altri.
L’analisi della musica, nella struttura compositiva, negli aspetti relativi alla strumentazione e nel rapporto con il testo, ha stimolato un’interessante presa di coscienza sul reale valore artistico di certa produzione musicale “di consumo” e fatto riflettere sui meccanismi che stanno alla base della sua fruizione.
L’esperienza ha prodotto reciproco arricchimento e incuriosito i miei studenti sulla successiva prospettiva storica proposta. A me ha ricordato una volta ancora, se ce ne fosse stato bisogno, quanto sia necessario (e bello) imparare, anche quando ci si trova “dall’altra parte”.
