L’INVENZIONE PER L’INTERPRETAZIONE

VALORIZZARE ALTERNATIVE CREATIVE ALLA RETORICA DEI REPERTORI MUSICALI

di Federico Ceriola

Un possibile approccio di ricerca si può sintetizzare nella parola serendipity.
Il termine, coniato dallo scrittore inglese Horace Walpole nel XVIII secolo, è tradotto come “colpo di fortuna” ma esprime un concetto ben più ampio che ha portato alla stesura di un metodo (N. Wiener, L’invenzione, come nascono e si sviluppano le idee, 1993 Massachusetts Institute of Technology).

È stato applicato con successo al campo della scienza e contrappone alla domanda “Cosa sto cercando? Qual è il problema?” un punto di vista rovesciato: “Proviamo questa procedura. Con i risultati che ho ottenuto quali problemi posso risolvere?”.  Applicato al campo musicale, ciò che si crea è sostanzialmente un repertorio non di brani esclusivamente eseguiti secondo quella che viene considerata la corretta interpretazione, ma di scenari possibili, di alternative, di invenzioni le quali portano ad un risultato diverso, giusto o sbagliato che sia, quantomeno creativo. Gli studi musicali comportano il confronto con le varie retoriche, cristallizzate nel tempo e diventate identificative delle epoche passate. Se è vero che esse sono fatte di cliché (“suonare alla maniera di” o semplicemente il trillo barocco che inizia dalla nota superiore) è anche vera la presenza di una sfera emotiva che richiede della creatività per essere esplorata. 

Nello studio di uno strumento musicale, la crescita del musicista è costruita sugli errori e sulla loro correzione da parte del maestro. Chiaramente, le note devono essere quelle scritte, su questo non c’è dubbio, ma nel momento in cui a livello espressivo si devii dalla retorica musicale a cui appartiene quel brano, in realtà l’errore sta aprendo una nuova strada di esplorazione. Se pensiamo alla partitura, di per sé, essa si presenta come un foglio di istruzioni, al quale vanno appunto associate queste considerazioni di cui stiamo parlando. Per lo più tali istruzioni risultano essere obiettivamente imprecise: a voler essere estremamente puntuali, si potrebbe notare che non viene indicato quanto forte debba essere una dinamica, a quanti decibel (dB) corrisponda un piano o un mezzo piano. Dunque, interpretare uno spartito risulta essere un atto di libero arbitrio da parte del musicista, già dal momento della prima lettura. Se poi immaginiamo l’esecuzione ben fatta come una linea retta, ogni possibile incidente di percorso può essere rappresentato come una linea che si scosta da quella principale. Ne risulta un albero i cui rami rappresentino alternative interpretative da indagare.

Per l’esecutore, il concertista, il performer, ampliare i propri orizzonti musicali è fondamentale e disporre di un ampio background di tecniche interpretative e di invenzione è oggi più che mai indispensabile per affrontare i nuovi linguaggi compositivi. Tuttavia, mai bisogna dimenticare quanto una scuola solida e strutturata sia insostituibile e consenta di affrontare in maniera coscienziosa la propria crescita musicale.

Nel 1969 Ian Anderson compone con i Jethro Tull la “Bourée” di Bach, senza aver mai letto la partitura. Il risultato è frutto dell’esplorazione di un’informazione che potremmo definire “incompleta”. 
In Songs from the Labyrinth (2006), Sting rivisita John Dowland (liutista del XVI secolo) in un disco che nulla ha a che vedere con lo Sting che conosciamo.

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